La crisi climatica ed energetica è quantomai attuale. Le istituzioni nazionali e sovranazionali hanno il dovere di contrastarla. Eppure, secondo gli ambientalisti, il nostro Paese continua a puntare sulle fonti fossili. Scopriamo di più.
Nel 2023, nonostante il calo delle risorse dedicate all’emergenza energetica, l’Italia ha speso 78,7 miliardi di euro in sussidi ambientalmente dannosi (SAD) destinati ad attività, opere e progetti connessi, direttamente e indirettamente, alle fossili. Una somma pari al 3,8% del PIL nazionale. Una spesa, negli ultimi 13 anni, costata all’Italia 383,4 miliardi di euro.
Tutti i dati sono contenuti nel report di Legambiente“Stop sussidi ambientalmente dannosi 2024”.
Fonti fossili: quali sono i settori interessati?
Tra i settori più foraggiati da sussidi, al primo posto si conferma quello energetico: 43,3 miliardi di euro, con una crescita rispetto all’anno precedente della componente non emergenziale (da 8 a 10 miliardi di euro). Tra questi, oltre ai favori al settore delle trivellazioni e al Capacity Market, a preoccupare di più sono i sussidi pubblici di SACE e CDP che, solo nel 2023, hanno messo a disposizione di infrastrutture a fonti fossili ben 6,4 miliardi di euro. Segue il settore dei trasporti (2,1 miliardi di euro), di cui le voci più critiche rimangono il differente trattamento fiscale tra benzina e gasolio (3,1 miliardi di euro) e GPL e metano (3,6 miliardi di euro) e le agevolazioni fiscali per auto aziendali (1,2 miliardi di euro); il settore edilizia (18 miliardi di euro, un aumento di un miliardo rispetto al 2022), dove risulta, secondo gli ambientalisti, incomprensibile l’ostinazione nel voler proseguire nel finanziamento delle caldaie a gas, andando contro ben due direttive europee; quello agricolo (3,2 miliardi di euro) e canoni, concessioni e rifiuti (1,6 miliardi di euro). A pesare la voce dei sussidi emergenziali: nel 2023 elargiti 33 miliardi per il settore energetico (per complessivi 50 interventi) e 374 milioni di euro per il settore trasporti; per un totale di 84 miliardi in due anni che, se investiti per solo un quarto (20 miliardi) in rinnovabili, avrebbero portato a circa 13,3 GW di nuova potenza installata e una produzione di 30 TWh di energia pulita; pari al fabbisogno di 12 milioni di famiglie e la metà del fabbisogno elettrico domestico italiano, con un risparmio annuo di 4 miliardi di metri cubi di gas.
Nella XIII edizione del report “Stop sussidi ambientalmente dannosi”, analizzando 119 voci di sussidi, Legambiente ha stimato che ben 25,9 miliardi di euro dei 78,7 spesi nel 2023 possono essere eliminati e rimodulati entro il 2030: a partire anzitutto alla voce delle trivellazioni, considerando che, nel 2023, le mancate entrate dovute all’inadeguatezza dei canoni e del pagamento di tasse del settore oil&gas rispetto a quelle di altri Paesi, aggravate dalle esenzioni dalle royalties e i tetti massimi per i canoni (nuovo sussidio introdotto un anno fa), sono pesate 642 milioni di euro sulle casse dello Stato (34 milioni in più rispetto al 2022). Altra voce è quella del Capacity Market: nel 2023 sono aumentati di 160 milioni i sussidi a centrali fossili (passando da 1,01 miliardi del 2022 a 1,17 miliardi). Da eliminare anche i sussidi alle caldaie a gas: nel 2022 687.532 quelle installate con un supporto statale pari a 4,2 miliardi (1 miliardo in più del 2021) tra ecobonus, superbonus e bonus casa.
I sussidi ambientalmente dannosi, tra quelli eliminabili e quelli rimodulabili, rappresentano risorse economiche importanti, che il Paese dovrebbe saper sfruttare meglio e in linea con le emergenze che stiamo vivendo: climatica, energetica e sociale. Secondo Legambiente non è vero, come ha dichiarato la premier alla COP 29, che non c’è alternativa. Occorre piuttosto indirizzare al più presto risorse nella direzione dell’innovazione, dell’efficienza energetica e sulle reti e sugli accumuli e rinnovabili, semplificando i processi autorizzativi, con l’obiettivo del 91% di copertura delle fonti rinnovabili nel settore elettrico entro il 2030 e del 100% entro il 2035.