L’Amministrazione comunale di Milano ha messo a rumore la città con l’ipotesi di ripopolarla fino alla soglia di due milioni di abitanti e ha cercato di nobilitare questo vistoso programma d'intervento (settanta milioni di metri cubi: poco meno del volume destinato alla residenza a Bologna e a Firenze!) con due tesi .
La prima fa proprio il concetto di “densificazione” che è venuto caratterizzando la metropoli nell’economia globale con risultati accettabili dove era già disponibile un capitale sociale fisso di grande ricchezza ed efficienza; la seconda vede in questo disegno la possibilità di trovare spazi per l’housing sociale e per correggere il modello di accessibilità del capoluogo, offrendovi abitazioni a basso costo che permettano di ridimensionare il fenomeno del pendolarismo attraverso rientri dei milanesi emigrati nell’hinterland.
Tralasciamo per il momento la querelle sulla soglia: i problemi di ordine strutturale, cui intendiamo fare riferimento, si pongono già nella Milano di oggi in considerazione del fatto che le viene comunemente attribuita una posizione marginale nella cerchia delle grandi città: quando si tira in ballo l’Expo, sarebbe, dunque, opportuno ragionare (soprattutto dopo il flop di Saragozza) con meno trionfalismi e maggiore lucidità.
Cerchiamo, allora, di porci un grappolo di problemi comunque e largamente aperti sull’orizzonte problematico di un po’ tutte le aree metropolitane del mondo occidentale come ampiamente individuato nella letteratura specialistica. A partire dalla perdita di qualità dello spazio pubblico che indebolisce la città esistente e il ruolo del progetto, dentro e fuori da quest’ultima.
Nonostante il processo di virtualizzazione delle comunicazioni, che cresce continuamente nel nostro sistema sociale, la grande città esercita ancora (e nonostante le crisi dell’economia globale degli ultimi vent’anni) un forte richiamo nei confronti del potere aziendale e della residenza facoltosa; non possiamo d’altro canto dimenticare che l’uno e l’altra sono pure attrattori di servizi umili oramai nello stesso campo del lavoro immateriale.
Chi offre queste prestazioni si scontra con condizioni di vita insostenibili e che restano penose allorché ricorrono all’uso improprio di certe sacche infrastrutturali (le gallerie abbandonate dalla ferrovia metropolitana a New York?) o d’immobili degradati o marginali, rivelando spesso i limiti crescenti - di qualità e di quantità - delle politiche più o meno tradizionali di housing.
In tutti i continenti i centri delle grandi città si assomigliano e appaiono del pari costellati e assediati da vasti comparti depressi e inospitali, rendendo manifesta la crisi dello spazio pubblico e di parti non trascurabili del patrimonio abitativo: nel primo tracima la cosiddetta economia informale, mentre nelle seconde si accavallano autorecuperi e insediamenti abusivi di sapore terzomondistico.
Non meno preoccupante a nostro avviso la situazione che si verrebbe a creare, incentivando, grazie a operazioni di edilizia sociale nel capoluogo lombardo, l’abbandono di abitazioni (come la casa unifamiliare a causa della sua crescente insicurezza) parzialmente in atto nelle zone meno dense dell’area metropolitana che accelererebbe la perdita di valore di queste case, indebolendo i flussi del rientro e promuoverebbe il declino di un tessuto insediativo largamente diffuso alle porte di Milano.
Si crea un pericoloso “dislivello” fra il sistema sociale e il suo ambiente umano e fisico che Milano non può illudersi di rimuovere, tentando di deviarlo fuori dai propri confini: certo è che né il capoluogo, né la sua provincia hanno (come può dimostrarci facilmente il demografo) la spinta per reggere “naturalmente” il ripopolamento, ipotizzato dall’Amministrazione comunale, cui dovrebbero dare invece apporto i rientri e, in maniera probabilmente decisiva, una popolazione giovane e presumibilmente straniera.
Basterà la casa a basso costo per trasformare i nuovi arrivati in cittadinanza? Non si pone un problema di
attrezzature (il verde, ma anche la scuola per la popolazione giovane) sacrificate con disinvoltura al dio cemento e di infrastrutture esteso alla Milano lontana dai quartieri alti come dall’intervento sugli immobili dismessi dove finirebbe con lo spargersi una quota incalcolabile e incontrollabile di quella popolazione? Come si può incidere sui costi delle merci di primordiale consumo? E via dicendo.
Veniamo all’ultimo punto di questo sommario e parzialissimo orizzonte. Fin dal lontano 1885 (la data di nascita del piano Beruto) la giovane città industriale viene menomata nel suo supporto infrastrutturale, dando la stura a uno squilibrio, oramai storico, fra insediamenti e reti. Non soltanto di trasporto: basta circolare nella Milano d’oggi per vedere drammaticamente confermato e ingigantito quest’antico difetto. Il traffico selvaggio, l’inefficienza dei mezzi pubblici, l’inquinamento, le strade e i marciapiedi a pezzi, come le… pozzanghere nei giorni di pioggia e neve, dimostrano in modo allarmante l’inadeguatezza infrastrutturale della città.
Perché allora scegliere di operare prevalentemente sui generatori della mobilità (gli insediamenti) e non
direttamente sul modello di accessibilità, sulla sua regolazione, sulle sue reti e, principalmente, sulla sua scala? Il nodo era già in corpore nel piano dei parcheggi, ingessato in una visione, immobiliaristica e milanocentrica, dell’operazione.
Perché, ancora, non giocare attraverso quel modello per dare respiro territoriale e metropolitano all’area milanese, connettendola meglio con i suoi poli e valorizzando la loro potenziale “sistemicità”? La scala metropolitana aiuterebbe a chiarire anche molti aspetti critici dello stesso mercato immobiliare, ma, soprattutto, a orientare un progetto di riorganizzazione e coordinamento dei trasporti come di altre infrastrutture tecnologiche cui diventerebbe difficile imprimere la spinta che potrebbe dargli un governo intelligente dell’Expo.
Il caso della “Città della salute” nella zona dell’ospedale Sacco è illuminante. Rinverdito proprio in questi giorni dal governatore Formigoni, propone di trattenere all’interno del capoluogo un plesso di interesse metropolitano, regionale e nazionale in una parte dell’estrema periferia milanese che avrebbe bisogno di riqualificazione a vantaggio dei suoi abitanti e non dell’impatto dei nuovi insediamenti tanto maggiore quanto più latiterà la precondizione di una nuova accessibilità.
La linea di metropolitana (Affori/Rho-Pero?), suggerita a tale scopo, è priva a tuttoggi di finanziamento: dovranno pensarci gli amministratori dell’Expo? Nessuna conclusione. L’Amministrazione comunale non recederà dai suoi propositi, ma settecentomila abitanti non arriveranno subito e tutti insieme: sarà il mercato l’ultimo giudice.
Occorre, invece, riflettere (non è mai troppo tardi per farlo) intorno ai problemi sul tappeto nell’area metropolitana e “dentro” la stessa Milano, anche perché la città “altra”, la città che il PGT sembra trascurare, sarà comunque e potrà essere soprattutto il teatro di trasformazioni acute e la sede di contraddizioni laceranti.
Bisognerà farlo con piena consapevolezza dei limiti, quantitativi e qualitativi, di Milano e della sua area metropolitana e, principalmente, senza dividere artificiosamente e irresponsabilmente il destino degli insediamenti privilegiati da quello che attende l’”altra” città a Milano e nel suo hinterland. Una lunga fatica che dobbiamo sollecitare e cui occorre prepararsi.