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“L’Italia è un Paese a tempo”. Ecco perché

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Presentata al Fuorisalone di Milano un’approfondita analisi commissionata al Cresme dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

L’Italia è definibile come “un Paese a tempo”. È proprio questo il titolo della conferenza di presentazione dell’approfondita analisi commissionata al Cresme dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori. L’evento s’è svolto al Fuorisalone di Milano. Ma quali sono, secondo il rapporto, i maggiori problemi dell’Italia?

Pesante contrazione degli investimenti in infrastrutture e edificiche, in alcuni ambiti, mostrano drammatici segni di obsolescenza che nei prossimi anni non potranno che peggiorare; forti squilibri competitivi tra chi investe e chi non investe in innovazione tecnologica; intenso cambiamento climatico che esaspera lo stress a cui sono sottoposti i territori, le città, la popolazione e il capitale fisso edilizio e infrastrutturale, aggravando il contesto di aree idrogeologicamente e sismicamente critiche come quella italiana; drammatiche perdite del PIL, riduzione di investimenti, struttura amministrava inadeguata per le sfide della competizione in termini di innovazione, con un ciclo demografico caratterizzato da perdita di popolazione, invecchiamento, riduzione della fascia di persone in età di lavoro, radicale modificarsi della famiglia e dei suoi comportamenti; dinamiche territoriali interne al Paese che producono importanti flussi di emigrazione da alcune aree ad altre, con il conseguente fenomeno dell’abbandono.

Drammatici i dati che emergono. Tra gli altri: investimenti nelle costruzioni calati a livelli del 1967 e in opere pubbliche ridotti di 108 miliardi; un capitale edilizio sempre più obsoleto (oltre il 42% ha più di 50 anni); in zone sismiche 1,2,3, ricadono 9,3 milioni edifici; la condizione delle strade italiane è peggiore di quella di Cina e Turchia e di ogni altro Paese europeo; continua a non essere noto il gestore di metà dei circa 3mila ponti e viadotti italiani; insufficiente manutenzione del patrimonio edilizio; una rete idrica che perde il 41,4% della portata (era il 37,4% nel 2012); una rete ferroviaria cresciuta ad un ritmo nettamente inferiore rispetto agli altri paesi europei; una crisi demografica che svuota 3,2 abitazioni (come se Roma e Milano fossero vuote).

La ricetta degli architetti italiani

“Occorre ripartire - spiega Giuseppe Cappochin, Presidente del Consiglio Nazionale - da questi elementi per una nuova stagione politica che ponga al centro dell’azione pubblica la rigenerazione urbana, da considerare come l’alternativa virtuosa alle espansioni incontrollate e all’ulteriore consumo di suolo. Servono linee nuove di risorse: non investimenti a pioggia, ma un piano nazionale vero e proprio che finanzi progetti integrati di rigenerazione urbana, portando a sistema i diversi livelli di risorse disponibili tra cui le agevolazioni fiscali. Un Piano caratterizzato da equità territoriale e inclusione sociale, sviluppo della cultura, della partecipazione e della “creatività collettiva” delle comunità locali; qualità dei paesaggi, degli ambienti urbani, dello sviluppo pubblico e delle architetture; riduzione del consumo di suolo agricolo e urbano, valorizzazione del territorio rurale e dell’agricoltura anche in ambito urbano e periurbano”.

Per Cappochin, “prioritaria deve essere la cultura della qualità delle costruzioni: dieci anni di crisi profonda hanno avuto il pregio di generare nell’opinione pubblica una nuova sensibilità sotto il profilo della sostenibilità ambientale, sociale, economica, e del valore sociale ed economico della costruzione di qualità”.

“Per favorire la cultura della qualità delle costruzioni - conclude - serve che i progetti delle opere pubbliche vengano assegnati attraverso concorsi di progettazione in due gradi, aperti, in quanto unica modalità che risponde ai principi di trasparenza, libera concorrenza, pari opportunità, riconoscimento del merito, e che permette di selezionare il progetto migliore ribadendo la contrarietà degli architetti italiani ad una struttura pubblica di progettazione centralizzata, inevitabilmente foriera di modelli ripetitivi, estremamente limitativa rispetto alle potenzialità del progetto e, in ultima istanza, contraria all’interesse pubblico”.