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Regime forfettario per le partite iva, è davvero un passo avanti?

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Si è portato il fatturato per beneficiare del regime forfettario dai 30.000 ai 65.000 euro l’anno ed è stata introdotta una serie non indifferente di semplificazioni. Ma...

Come è ben noto, con la legge finanziaria del 2019, con l’ottimo intento di aiutare le partite IVA più “piccole”, si è portato il fatturato per beneficiare del regime forfettario dai 30.000 ai 65.000 euro l’anno con il pagamento di una flat tax del 15% e una serie non indifferente di semplificazioni (tra cui un coefficiente di redditività del 78%), abbattendo notevolmente la burocrazia che, per tutte le partite Iva, rappresenta da sempre un vero e proprio spreco di denaro e di energia. In pratica il Governo ha iniziato un percorso virtuoso sia nei confronti dei piccoli imprenditori che della parte più debole dei liberi professionisti.

La partita IVA agevolata è quindi uno strumento straordinario per:
- consentire l’avvio di nuovi progetti imprenditoriali;
- permettere un ingresso snello dei professionisti e dei lavoratori autonomi sul mercato;
- non tassare eccessivamente i redditi bassi da lavoro autonomo e di impresa;
- semplificare il sistema.

Un vero e proprio “farmaco miracoloso” per i liberi professionisti, soprattutto se giovani o in difficoltà dopo anni di dura crisi. Purtroppo come in tutti i farmaci ci sono delle controindicazioni.

Il regime forfettario 2019 potrà essere utilizzato da tutti i lavoratori dipendenti, a prescindere dall’importo del loro reddito, è questa una delle novità importante della nuova partita IVA agevolata. In precedenza i contribuenti titolari di partita IVA nel regime forfettario potevano essere contemporaneamente lavoratori dipendenti solo se il reddito da lavoro subordinato non fosse stato superiore a 30.000 euro lordi. Oggi questo limite sparisce, mentre tale restrizione rappresentava un elemento di equità fiscale, evitando che il regime forfettario potesse essere sfruttato da chi un reddito vero lo aveva (compresi alti funzionari, dirigenti, etc) che, guadagnando oltre 30.000 euro all’anno, non avevano e non hanno alcuna necessità di agevolazioni di questo tipo. A questo proposito, la Legge di bilancio 2019 rischia di violare i principi di uguaglianza, equità e capacità contributiva previsti dalla nostra Costituzione agli articoli 3 e 53. In pratica, si dà la possibilità a chi ha già un lavoro vero (anche dipendente della PA e quindi pagato dai cittadini) di svolgerne un altro, magari invogliato dalle condizioni agevolate. In tal modo il dipendente “forfettario” farà concorrenza anche ai liberi professionisti che, per mancanza di incarichi, possibilmente percepiranno il reddito di cittadinanza (sempre pagato dai contribuenti) visto che purtroppo sono molti i professionisti tecnici che hanno un’ISEE inferiore a 9.600 euro l’anno. Inarsind è da sempre stata per il principio “una testa un lavoro” mentre ora con la finanziaria si incentiva il secondo lavoro, che andrebbe invece vietato (già alla stipula dei contratti, almeno nella P.A) anche nei casi più “innocenti” come le ripetizioni fatte dai docenti (che sono ugualmente dipendenti dello Stato), anche queste tassate al 15%. In pratica chi ha un reddito da lavoro dipendente anche da 200.000 euro/anno potrà accedere al regime forfettario, e ciò creerà l’ennesima sperequazione del nostro sistema fiscale, sempre meno credibile agli occhi di cittadini, imprese e professionisti.

Un altro effetto collaterale potenzialmente generato dal nuovo regime forfettario è quello dell’incentivo alle false partite IVA. Questo non vuol dire che si debba tornare al vecchio limite, ma che è necessario controllare e penalizzare adeguatamente l’uso scorretto della partita Iva forfettaria, perché l’innalzamento del limite dei ricavi oltre i 30.000 euro determina, come conseguenza, la convenienza al passaggio dal lavoro dipendente alla falsa partita IVA. Effetto in verità attenuato dalla norma che nega le agevolazioni alle le persone fisiche la cui attività sia esercitata prevalentemente nei confronti di datori di lavoro con i quali sono in corso rapporti di lavoro o erano intercorsi rapporti di lavoro nei due precedenti periodi d’imposta, ovvero nei confronti di soggetti direttamente o indirettamente riconducibili ai suddetti datori di lavoro”. Ma questo, ad esempio, non vieterà al datore di lavoro poco scrupoloso di liquidare un dipendente (ormai troppo costoso sul mercato) per sostituirlo con una nuova partita Iva agevolata, visto che i primi studi effettuati dimostrano che, a parità di reddito netto, un lavoratore autonomo costerebbe al suo “committente/datore di lavoro” oltre il 40% in meno di un lavoratore dipendente di pari livello. Ovvio che in caso di nuova assunzione questo parametro peserà ancora di più e inciderà ancora di più anche a livello di concorrenza, perché chi paga il 40% in meno i propri collaboratori sarà certamente più competitivo rispetto a chi li paga correttamente da dipendenti, creando una disparità che favorisce chi opera in modo meno scrupoloso.

Come evidenziato dalla pluralità della stampa specializzata nelle scorse settimane questo nuovo sistema pone, nel suo complesso, tutti i presupposti per auto limitarsi nello sviluppo imprenditoriale e professionale se non addirittura ad incentivare il nero per restare entro il limite agevolato. Certo è solo un’ipotesi ma, considerando di restare nell’ambito della lealtà fiscale, è certo che il sistema scoraggia le associazioni tra professionisti, le STP e lo sviluppo di società di capitali di servizi professionali e questo, per la competitività del settore, è certamente un problema visto che in Europa siamo il fanalino di coda (vedi rapporto Confprofessioni 2018) per il numero di addetti per studio e che la stragrande maggioranza (almeno nel campo tecnico) è composta sostanzialmente da professionisti singoli che andrebbero invece invogliati ad aggregarsi. Oltretutto non si capisce perché uno studio associato di 3 o 4 elementi, che in media fatturano meno di 65.000 euro ciascuno, debba essere costretto a frazionarsi per potere usufruire delle stesse agevolazioni, dissolvendo quel minimo di aggregazione che gli consentiva una migliore organizzazione del lavoro e quindi una maggiore competitività.

In ultimo si crea un’ulteriore alterazione della concorrenza fra colleghi, dal momento che chi usufruisce del regime “forfettario” non imporrà l’IVA sulle fatture al proprio committente, mentre il collega fuori da tale regime non potrà esimersi di applicare l’IVA (da restituire in gran parte allo Stato) praticando necessariamente un onorario più alto del 22% nei confronti del committente privato o della P.A., per i quali l’Iva è un costo indetraibile.

In definitiva, si sono fatti notevoli passi avanti, ma è opportuno da subito porre rimedio ai problemi sopra evidenziati, alcuni semplici da risolvere altri un po’ meno, ma sono certo che le Associazioni Sindacali, come INARSIND, e ancor di più le Confederazioni di Liberi Professionisti, come Confprofessioni, saranno da subito disponibili a proporre soluzioni ragionate ed equilibrate a favore dei propri iscritti, ma soprattutto utili al paese, che oggi più che mai ha bisogno di stabilità ed equità fiscale.